La storia dell’acciaio culmina con la nascita del primo vero ponte del mondo realizzato con quel materiale: il ponte di Brooklyn.
Gherardo Canale, Project Engineer in Incide Engineering, prosegue la narrazione sulla storia dell’acciaio raccontando le vicessitudini che hanno portato alla sua nascita, assumendo la prospettiva di Emily Warren Roebling: la donna che nell’800 guidò il progetto più complesso mai realizzato prima.
La famiglia dei Roebling
Sono Emily Warren Roebling e questa è la mia storia, legata ad un ponte che ha sfidato il cielo e le onde, un ponte che ha unito Manhattan e Brooklyn. Un ponte che ha cambiato per sempre il volto di New York.
Tutto ha avuto inizio con John Augustus Roebling, mio suocero. Ingegnere tedesco di formazione con una visione del mondo audace e sfidante. Emigrato negli States, nel 1849 fondò la sua azienda di manifattura di fili d’acciaio. La Roebling Wire Company (ancora oggi esistente) divenne presto sinonimo di eccellenza. Roebling era un pioniere nell’arte di produrre cavi d’acciaio. La tecnica rivoluzionaria coinvolgeva il trafilaggio, un innovativo processo che riduceva gradualmente il diametro del filo attraverso una serie di passaggi. Questo plasticizzava i cavi rendendoli più resistenti e flessibili, perfetti per le sfide delle costruzioni di ponti sospesi.
Spesso si sedeva sui moli ad osservare e progettare il futuro. Per anni sognò di raggiungere Manhattan a piedi. Arrivò a stringere accordi col sindaco di NY per la costruzione di un’opera senza eguali.
Purtroppo, la sorte gli fu avversa proprio durante uno di questi voli pindarici.
Nel 1869 un traghetto che faceva la spola tra le due sponde andò in avaria e investì John. Prima perse una gamba e poi la vita. Il sogno di mio suocero, però, sopravvisse. Gli accordi presi con il sindaco non vennero meno. Il ponte si sarebbe fatto. Serviva solo un altro Roebling: mio marito, il colonnello Washington Roebling. Reduce dalla sanguinosa guerra civile Americana, prese le redini del progetto. Con lo stile militare acquisito nei campi di battaglia, organizzò il cantiere, creò una squadra di lavoro, iniziò ad impilare disegni su disegni e strinse accordi con operai ed imprese. Il primo mattone fu posto.
La Spina d’Acciaio
Collegare Manhattan e New York non era un’impresa qualsiasi, ma un esperimento ardito in acciaio, materiale mai utilizzato su questa scala. Quattro enormi cavi d’acciaio, ognuno contenente 5.657 metri di filo zincato, avrebbero ancorato il ponte. Questi cavi sarebbero stati fissati a lastre di granito incastonate nella roccia alla fine di ogni torre. La luce del ponte raggiungeva 486,3 metri e la sua altezza si innalzava a 84 metri sopra l’East River.
Non era solo l’acciaio a rendere il Ponte di Brooklyn straordinario. Era il cuore e la determinazione di mio marito. Eppure, mentre tutto stava andando nella direzione giusta, qualcosa di misterioso e sconosciuto iniziò ad emergere man mano che si scavava in profondità. Le mirabolanti innovazioni ingegneristiche richiesero un contributo terribile e non previsto.
Le viscere della terra
Il cantiere era una danza pericolosa tra la vita e la morte. I cassoni autoaffondanti erano geniali, ma insidiosi. Consentivano ai lavoratori di scavare in profondità nel letto del fiume, ma si scoprì che lo permettevano solo ad un caro prezzo. Gli operai scendevano nelle viscere della terra dentro ai cassoni in pressione. Quando ne uscivano iniziavano a stare male. Si contorcevano dal dolore. Perdevano l’uso di arti. Peggio. Morivano. Per la precisione, due dozzine di operai persero la vita, vittime di una malattia allora poco conosciuta, tristemente nota oggi come embolia gassosa.
Le prime camere iperbariche moderne nacquero nello stesso periodo, spinte dalle ricerche di Paul Bert, fisiologo francese che si interessò proprio a questi terribili avvenimenti. Nel Bert 1878 pubblicò il libro “La pression barométrique” in cui spiegava le basi patologiche della cosiddetta “malattia dei cassoni” o malattia da decompressione.
Tra le vittime ci fu anche mio marito. Ironia della sorte, dalla battaglia di Gettysburg ne uscì illeso, con una decorazione al valore, ma da uno dei cassoni autoaffondanti non ci riuscì. Non morì, ma rimase irrimediabilmente paralizzato, impossibilitato a continuare il lavoro sul campo.
Una tragedia. Un altro Roebling colpito dalla maledizione.
Toccava a me. Emily Warren. La nuora di un Roebling. La moglie di un Roebling. Una donna a capo del progetto più complesso mai realizzato prima. Studiai tanto. Imparai moltissimo. Analisi delle sollecitazioni, resistenza meccanica, archi catenari. La disciplina ingegneristica si piegò al mio sapere per 14 anni della mia vita. Imparai a gestire gli operai e organizzai il cantiere.
Fui invitata a parlare all’American Society of Civil Engineers (ASCE) ed in seguito divenni la prima donna a diventarne membro. Combattei anche per i diritti femminili pubblicando articoli sulle riviste più note.
Le torri furono erette. Ora veniva la parte più pericolosa: i cavi dovevano essere sollevati e tesati. Ricordo ancora quel giorno in cui uno di loro si ruppe, uccidendo un operaio e mancando di poco un ferryboat. Io e mio marito fummo accusati di aver usato dell’acciaio non conforme. Affrontammo le accuse assieme e la verità venne a galla. Fu la “High Wire Company” (vincitrice dell’appalto) ad aver barato sui test.
Rifeci i calcoli. Aggiunsi ulteriori cavi ai trefoli, ma fu grazie ad un altro personaggio se i lavori proseguirono. Un folle a cui mi affidai per portare a termine un progetto ancora più folle.
Il volo di Farrington
Era una mattina di nebbia e le pile si stagliavano come gambe di un gigante di acciaio e pietra. I lavoratori si affaccendavano, martellando, saldando e sudando sotto il sole implacabile. Un uomo si distingueva tra tutti: Frank Farrington, il supervisore capo della costruzione.
Farrington aveva gli occhi scrutatori di un falco e le mani callose da anni di lavoro. Era il mio braccio operativo. Ogni bullone, ogni trave, ogni cavo passava sotto il suo sguardo attento, ma c’era una sfida che lo chiamava, una prova di coraggio che avrebbe segnato la storia del ponte.
La campata principale, quella tra i possenti piloni, sembrava un abisso senza fine. I cavi d’acciaio si intrecciavano come serpenti giganti e il vuoto sotto di loro faceva girare la testa. Nessuno aveva ancora osato attraversarli. Toccava a lui.
Una sera, quando il sole si tuffava nell’East River, Farrington si inerpicò sulla pila di Brooklin. I lavoratori lo osservavano, i loro cappelli in mano. Era come se il mondo trattenesse il respiro. Si legò una fune intorno alla vita e si arrampicò sul trefolo centrale. Il vento gli sibilava all’orecchio e il cuore gli batteva all’impazzata.
Con un sorriso audace, si lasciò scivolare.
Attraversò la campata come un rapace, i piedi che sfioravano appena i cavi. La folla lo guardava, incantata. Quando raggiunse l’altra estremità, scoppiò in applausi. Era diventato una leggenda vivente.
Ispirò fiducia. Motivò tutti. Portò linfa vitale alle squadre di lavoro. Il ponte ora avanzò di slancio. Sotto la mia guida venne completato l’impalcato e furono completate tutte le opere accessorie in tempi record.
Il Trionfo di Emily
Il 24 maggio 1883 il Ponte di Brooklyn aprì al traffico. Questo, però, avvenne solo dopo che mi fu concesso l’onore più grande. Fui la prima ad attraversare il ponte. Da sola. Quattordici anni di fatiche mi sfrecciarono incontrollate per la mente.
Mentre lo percorrevo non potei non pensare a tutte le sfide vinte in questi anni. Mi commossi al pensiero delle vittime degli incidenti avvenuti. Mi esaltai ripensando alla follia ingegneristica che propose mio suocero. Mi emozionai ricordando la dedizione di mio marito.
Soprattutto, però, mi sentii fiera di me stessa: a testa alta raggiunsi l’altra sponda. Anni di fatiche e sacrifici per completare un’opera titanica fatta di acciaio, sudore e sogni. Ce l’avevo fatta.
Dopo di me, un impresario circense di nome Phineas Taylor Barnum, fece passare 21 elefanti sulla sua struttura, dimostrandone inconfutabilmente la stabilità.
Il ponte divenne prima un simbolo della città, attirando turisti e avventurieri ed in seguito un simbolo nel mondo. Un simbolo di caparbietà e capacità. Un simbolo di unione. Un esempio che molti altri avrebbero in futuro seguito.
Il ponte di Brooklyn nel presente
La prossima volta che attraversate questa iconica struttura, fermatevi di fronte ad una piccola targa commemorativa posta su una dei due piloni.
Rendetele omaggio. Soprattutto oggi, in cui le donne sono ancora nella condizione di dover rompere le barriere e infrangere soffitti di cristallo. Ricordate Emily Warren Roebling: la donna che sfidò le convenzioni, navigò tra le avversità e lasciò il suo segno immortale.
Autore: Gherardo Canale, Project Engineer in Incide Engineering
Immagine di copertina realizzata con AI